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Nel 2022 il consumo di carbone nel mondo è stato di 8.3Miliardi di tonnelate, e per quest’anno a giugno siamo già a 4.7miliardi: un trend in decisa crescita.

Glencore società mineraria e di scambio merci multinazionale anglo-svizzera, ha rilevato nei giorni scorsi diversi settori di business di un’altro grande big nella gestione di minerari come la canadese TeckResource, dando vita a un accordo di 9miliardi di dollari; tutto questo con il prezzo del coke metallurgico risalito nei mesi scorsi a livelli vicini ai 380$/tonnelata dopo i picchi del 2022 dove aveva superato i 550$.

Cina e India fanno da padrone nel consumo di carbone con oltre il 50%, mentre in Europa il consumo è in calo per gli obiettivi sulla decarbonizzazione. Tranne che per la Germania che a causa della volontà politica di chiudere le centrali nucleari, il consumo di carbone per la produzione di energia elettrica è crescito di un 7% negli ultimi anni. Germania e Polonia si confermano i maggiori consumatori europei di carbone e al tempo stesso i maggiori emettitori di CO2, in quanto in tutta Europa tra i due paesi si concentrano ben 9 centrali a carbone che da sole valgono il 50% di emissioni di biossido di carbonio nel nostro continente.

Nuovi investimenti non solo sul carbone.

IEA l’agenzia internazionale per l’energia prevede che per il 2023 gli investimenti in estrazioni di gas e petrolio cresceranno del 11% con investimenti totali di circa 530miliardi di dollari. Gli analisti di Wood Mackenzie prevedono ulteriori investimenti di 180 miliardi di dollari in E&P (Exploration &Production) entro il 2025 per estrarre riserve di petrolio a pari a 27miliardi di barili. Alla luce di ciò, non è un caso se compagnie petrolifere come Shell e Bp, abbiano rallentato i piani di abbandono delle attività tradizionali, avendo sperimentato sulla propria reddittività ritorni di investimento molto bassi dalle fonti rinnovabili (circa la metà) rispetto a quelle sugli idrocarburi.

Si delineano quindi consistenti flussi di investimento nel settore dei combustibili fossili, con previsioni di una domanda petrolifera che supererà i 100 milioni di barili al giorno entro il 2023. Cina e India si confermano come protagoniste nel consumo di fonti fossili, mentre l’Europa e l’Occidente, spinti dalle politiche orientate alla sostenibilità, rischiano di essere trascinati verso il basso in un vortice di stagnazione economica, rendendo l’economia sempre più vulnerabile e fragile.

Gli investimenti green degli ESG come vanno?

Nelle ultime settimane, si sono susseguite notizie riguardanti le difficoltà finanziarie di importanti aziende nel settore dell’energia eolica offshore, come Siemens Energy e Orsted. Anche la produzione di veicoli elettrici ha subito un rallentamento da parte di Ford e General Motors, mentre alcuni governi, come quello britannico e canadese, hanno adottato una posizione più cauta sulla riduzione delle emissioni di carbonio.

In questo contesto non è un caso se anche i mercati finanziari hanno risposto adeguando i prezzi dei titoli del settore green, considerando le incertezze e i rischi geopolitici che attualmente influenzano gli scenari internazionali.

Tra gli Exchange Traded Fund (ETF) più liquidi specializzati nel settore green, le quotazioni dell’iShares Global Clean Energy (fondo che replica le performance dell’indice S&P Global Clean Energy Index, costituito da circa 100 aziende attive nel settore delle energie rinnovabili), hanno registrato un calo del 34% dall’inizio dell’anno, segnalando una notevole debolezza. Nello stesso periodo, l’S&P 500 (gold-standard per i confronti fra indici), ha registrato un aumento del 16%.

La decelerazione del settore finanziario nei confronti delle energie rinnovabili si riflette non solo nell’andamento negativo dell’indice green più liquido sul mercato, ma anche nella riduzione delle emissioni di obbligazioni private legate a tali energie. Nel 2021, sono state emesse obbligazioni per 608 miliardi di dollari a livello globale, mentre nel 2022 la cifra è scesa a 541 miliardi di dollari, e si prevede che il 2023 chiuderà sotto questa cifra, intorno ai 510 miliardi di dollari.

Il contributo dei combustibili fossili nel mondo.

Se negli anni 90 il fabbisogno mondiale di energia era soddisfatto da: 87% dai combustibili fossili (39 petrolio, 27 carbone, 20 gas), 5% dal nucleare, 6% idroelettrico e da un 0.01% da fotovoltaico ed eolico; attualmente i combustibili fossili contribuiscono per l’84% (33 petrolio, 27 carbone, 24 gas), 4% dal nucleare, 6% idroelettrico e da un 3% fra fotovoltaico ed eolico (rispettivamente 1% e 2%).

Trent’anni dopo è pur vero che le rinnovabili sono cresciute di un fattore pari a 300, ma l’hanno fatto principalmente tramite sussidi pubblici e di certo la transizione energetica non si avvierà tramite decreti leggi, ma con sostenibilità e convenienze su tutta la filiera.

Dobbiamo essere consapevoli: il mondo non può soppravviere senza combustibili fossili. Il petrolio non serve soltanto per ricavare i combustibili per l’autotrazione, ma per l’asflato delle strade, la produzione di materie plastiche e prodotti sintetici che quotidianamente usiamo e che hanno fatto il vero progresso nella società. Dal petrolio, paradosso dei paradossi, si ricavano i lubrificanti delle turbine. Ne servono circa 300litri per una turbina eolica, se dobbiamo rispettare i target del green deal, ne dovremmo avere solo in Italia 10,000turbine nei prossimi anni, per un ammontare di 3milioni di litri di lubrificante. Morale: senza petrolio niente energia eolica.

Ciò che ha permesso il progresso e cambiato il mondo è la disponibilità h24 di energia, questa è possibile solo grazie a centrali che funzionano a combustibili fossi, a energia nucleare e dall’idroelettrico, eolico e fotovoltaico con la loro intermittenza non possono garantire continuità.